Il mantra avveniristico più in voga degli ultimi due anni è sicuramente lui, secondo me anche più dell’Intelligenza Artificiale: il Quantum Computing, calcolo quantistico.
È anche vero che da un po’ l’attributo Quantum va comunque di moda anche in ambiti non strettamente scientifici (coscienza quantica, mente quantica e via discorrendo), però di sicuro una delle innovazioni da cui ci si aspettano progressi sconvolgenti è proprio questa branca della ricerca che incrocia Fisica Teorica, Fisica Sperimentale e Computer Science.
Sommario
Breve storia del Quantum Computing
La nascita della Fisica dei quanti è dovuta a Max Planck che, in un suo articolo del 1901, trovò la quadra per una giustificazione teorica della curva del corpo nero (ho tradotto l’articolo originale, per chi fosse interessato) un oggetto ideale che non riflette alcuna luce, a cui i fisici di fine ‘800 non riuscivano a dare una spiegazione in termini di Elettromagnetismo e Termodinamica.
A coniare il termine “quanto” fu Albert Einstein nel suo articolo sull’effetto fotoelettrico del 1905 (il primo dei tre articoli del suo annus mirabilis), uno dei primi contributi ad utilizzare con profitto l’idea di elemento di energia (come lo chiamava Planck).
L’idea di utilizzare la Meccanica Quantistica per costruire i computer si può far risalire a Richard Feynman che la descrisse nella sua celebre lezione al Caltech per l’American Physical Society il 29 dicembre 1959: There’s Plenty of Room at the Bottom.
Attenzione: già i computer attuali sono basati sulla Meccanica Quantistica (il funzionamento dei semiconduttori si spiega solo con la Meccanica Quantistica), ma per questa nuova generazione la differenza è questa: affidare la codifica dell’informazione ad uno stato di un singolo sistema quantistico. Attualmente non è così: 0 o 1 fisicamente vengono codificati con il fatto che una strisciolina di silicio lasci passare o meno una corrente, che è una informazione dell’elettromagnetismo classico.
Paradosso EPR e teorema di Bell
Fin dalle origini (Planck e Einstein, anni Zero), passando per i lavori di Bohr e Sommerfeld (anni Dieci) e poi ancora per quelli di Heisenberg, Schrödinger, Jordan, Born e Dirac (anni Venti) – ma ne ho lasciati fuori tanti – non ci si affrancò mai abbastanza da essere sicuri di dove questa teoria ci avrebbe condotto. Era strana. Molto più strana anche della stessa Relatività di Einstein. Occorreva capirla ancora, sempre meglio. Che fosse difficile da capire lo ammisero tutti dall’inizio.
Bohr nel suo tentativo di argomentare contro l’articolo EPR nel 1935 ammise “Stiamo cominciando a capirci qualcosa”. Erano passati vent’anni dal suo primo articolo.
In un’altra lezione del 1965 Feynman lo disse fuori dai denti: “I think I can safely say that nobody understands Quantum Mechanics.”
Nel 1935 Einstein fece un lavoro che partì in sordina – le citazioni per vent’anni rimasero molto poche, poi all’inizio degli anni Sessanta fino ad oggi crebbero enormemente. Egli continuò a rimuginare sulla teoria quantistica per tutta la vita senza riuscire a digerirla. Il famoso articolo scritto quand’era già a Princeton dopo essere fuggito dalla Germania nazista, presenta il famoso paradosso di EPR (dai nomi degli autori: Einstein, Podolsky e Rosen), nel quale si sosteneva che la Meccanica Quantistica non può essere completa, attraverso un esperimento mentale grazie al quale si dimostrava che si poteva violare il principio di indeterminazione. Detto in parole semplici, secondo l’articolo di EPR la Meccanica Quantistica è probabilistica perché ci nasconde qualcosa.
Molti tentativi di confutare questa conclusione furono fatti – in primis da Bohr al quale avevano toccato il suo giocattolo – ma non convinsero mai completamente tutta la comunità scientifica. Una svolta si ebbe con il Teorema di Bell, dimostrato dal fisico irlandese John Bell nel 1964, nel quale si provava che erano fondate le preoccupazioni espresse da Einstein. In effetti Bell ci mostra che la Meccanica Quantistica non è reale né locale: la peggior paura di Einstein, in quanto pare che le informazioni possano propagarsi a velocità infinita (la spooky action at a distance detta poi entanglement) e che la Luna non esista quando la si guarda, cioè lo stato quantistico non sia definito prima della misura. In realtà le cose non stanno esattamente così nel mondo macroscopico, ma in quello subatomico sì.
Tecnicamente il teorema di Bell afferma che se la Meccanica Quantistica è una teoria a variabili nascoste (cioè è probabilistica perché ci nasconde qualcosa) allora deve valere una certa diseguaglianza. Ma se la Meccanica Quantistica è quello che dice di essere, questa diseguaglianza deve venire violata.
La violazione della diseguaglianza di Bell viene sistematicamente verificata dagli stati quantistici, in altre parole: la Meccanica Quantistica non è casuale grazie a variabili nascoste, è proprio dispettosa di suo. Questo fu provato sperimentalmente da Alain Aspect nel 1983 e da molti altri esprimenti condotti nei modi più fantasiosi per evitare che la Natura potesse aggirare l’esperimento (i cosiddeti loopholes), anche se la prova definitiva risale solo al recente 2018.
Alain Aspect, Anton Zeilinger e John Clauser sono stati insigniti del premio Nobel per la Fisica quest’anno, il 2022, proprio per questi lavori.
Cosa entra questo con il calcolo quantistico?
La manipolazione degli stati effettuata per avere una conferma sperimentale del teorema di Bell, diede forza al concetto di qubit: un modo di codificare una informazione binaria attraverso lo stato di un sistema quantistico che però ha la bella proprietà di trovarsi in infinite combinazioni lineari di stati elementari prima di venire misurato. Il valore dello stato non esiste prima della misura, è questo che si intende con la locuzione la MQ non è reale.
Al contrario, il bit classico ha un valore anche prima di essere misurato, solo che lo ignoriamo ma è lo stesso che ha anche dopo che lo abbiamo misurato. La differenza è sostanziale ed è alla base del calcolo parallelo consentito dal questo tipo di dispositivi.
Nel 2015 ho seguito il corso di Quantum Information nell’ambito il Dottorato in Ingegneria delle Telecomunicazioni dal DEI – Università di Padova, tenuto dal prof. Paolo Villoresi, mio insegnante di Elettronica Quantistica quando studiavo Ingegneria Elettronica che, saputo del mio interesse sull’argomento, mi ha accolto affettuosamente nel suo gruppo di dottorandi.
In quel corso effettuammo un esperimento che era un po’ il rifacimento dell’esperimento di Aspect che mostrava la conferma sperimentale del teorema di Bell: una diseguaglianza che in teoria deve venire violata dalla MQ se è non reale o non locale – viene violata per davvero. Ne nacque questo mio lavoretto che mi divertii sommamente a scrivere, nel quale affronto un po’ di armamentario teorico per manipolare con una certa confidenza l’argomento, studio in dettaglio il paradosso EPR e infine descrivo il teorema di Bell e l’esperimento che da’ una conferma sperimentale che la disuguaglianza di Bell è davvero violata nella realtà.
Vedo, dai log del mio Google Analytics, che ultimamente il download di questo mio articolo ha avuto una rapida impennata, lo metto volentieri in evidenza per chi volesse leggerlo.
Misura della violazione della disuguaglianza di Bell
Bibliografia
È quella che trovate all’interno dell’articolo.
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